Che fine ha fatto la fiera?

fieramastazzoli

di Pino Del Pizzo

Da bambino, aspettavo la fiera come uno degli eventi più importanti dell’anno, quasi quanto il Natale e certamente più di Pasqua.
Le bancarelle, che dai Cappuccini arrivavano a Piazza Commercio, erano un’attrazione unica: un’irripetibile vetrina aperta su un variopinto panorama di desideri spesso inappagati, un mondo in cui l’utile e il futile, il tradizionale e le tante novità polarizzavano l’attenzione di tutti i visitatori. Per i bambini più fortunati, la fiera rappresentava generalmente l’acquisto di un giocattolo (una palla di gomma, uno “sdruommulu”, una bambola, una collezione di pentoline, una bambola che apriva e chiudeva gli occhi, una pistola che sparava “botticelle”, un jo-jo, ecc.). I “grandi” invece coglievano l’occasione per acquistare attrezzi da lavoro o utensili vari, stoffe, piatti, vasi di terracotta e cestini…oltre gli immancabili “mostaccioli”.

Da giovane (intanto la fiera era “straripata” oltre piazza Commericio fin oltre la Banca) la fiera era l’occasione per approfittare della confusione per tentare qualche timido approccio “ravvicinato” con l’altro sesso col quale si riusciva a scambiare alcune parola di sfuggita e a sfiorarne le mani.

Per ore si giocava “alle bambole” attratti dall’imbonitore che, con raffinato gioco di parole, offriva, in cambio della “busta”, estratta dal vincitore di ogni sorteggio, altra merce che, quasi puntualmente, veniva rifiutata con la speranza di poter vincere un premio maggiore (la più bella bambola, una bicicletta o -persino- un televisore)… Ma, quasi altrettanto  puntualmente, si restava con la delusione di un premio irrisorio.

Erano i tempi in cui si giocava alla “carichella” o alla roulette dove immancabilmente, noi giovani (e non solo noi) venivamo “spennati”, ma non demordevamo di tentare la fortuna il prossimo anno.

Le bancarelle più gettonate, erano quelle dei cestini di vimini e delle piante ornamentali da appartamento. I “mostaccioli” la facevano ancora da padroni, mentre l’accresciuta varietà dei negozi rendeva sempre minori le probabilità di trovare nuovi oggetti o nuovi giocattoli.

Da adulto ho visto, anno dopo anno, l’espandersi della fiera in via Margherita, al mercato vecchio, in via della Libertà, sulla superstrada e al lungomare. Un’invasione di bancarelle quasi soffocante e ripetitiva nella quale si sono persi i cestini di vimini e le piante, in un coacervo multirazziale e multietnico, al passo con la globalizzazione, col consumismo, con lo spreco…

Quest’anno il rito “fiera” è stato consumato in quattro interminabili giorni (30 e 31 ottobre, 1 e 2 novembre) caratterizzati dal blocco totale della circolazione, da difficoltà di parcheggio per i residenti, dall’impossibilità di spostarsi anche a piedi dovendo fendere muraglie umane.

Tantissime le presenze, ma – a sentire gli ambulanti-  basso il volume degli affari paragonato ai sacrifici affrontati.

Nota positiva: la mattina di giorno 3 novembre le vie principali erano state pulite con sollecitudine. Solo nelle traverse e in qualche angolo dei vicoli, mucchi di cartoni e di buste a ricordare l’evento, a risvegliare la nostalgia… a formulare una domanda “Che fine ha fatto “‘a fera”?

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