I sentieri della memoria

Bambini con la palma di Pasqua

Bambini con "a parma" di PasquaNoi bambini vestivamo di pied‑de‑poule grigio oppure di blue bianco; i più grandi di principe di galles, uomo o donna indifferentemente.

Le foto ricordo, quelle senza la “palma”, erano rigorosamente scattate accanto a rigogliose chiome di margherita bianca; poi, stampate, venivano spedite ai parenti (quasi sempre nelle Americhe).

Ci si preparava fin dal sabato vigilia delle Palme. Ognuno si dava da fare per la sua.

A me ne toccava una intrecciata con serti d’ulivo dove, tra i nastri colorati, venivano legate le caramelle e le cioccolatine che ci arrivavano dalla Scozia.

Io ero un eletto. Altri miei amici coetanei avevano una palma fatta di canna e svolazzi di carta velina. Altri ancora solo ramoscelli d’ulivo e di alloro.

I “ricchi” portavano a benedire palme intrecciate a fiocco cariche di dolciumi e dell’uovo di pasqua di cioccolato che variava in grandezza a secondo dell’età e della ricchezza.

In chiesa era un luccichio ed uno sfregare continuo di carta stagnola.

Appostati ai lati della porta della chiesa, nel pigia pigia generale, riempivamo le nostre tasche vuote alleggerendo quelle palme troppo gravide ed anche per farci giustizieri in nome della povertà.

Qualche volta ci scappava anche l’uovo, ma scipparlo significava fare troppo rumore e correre seri pericoli.

Dopo ci si soffermava sul sagrato dove si ammirava la palma (quasi mezzo albero di un giovane ulivo) di Peppino “u jazzariutu” (di Gizzeria), su cui veniva appeso di tutto: pane, salame, vino, pasta, dolci e tant’altro. Una sorta di albero della cuccagna “ad personam” o, se vogliamo, un singolarissimo cappello per… chiedere.

Peppino “u jazzariutu” Ai riti della settimana santa ci si preparava con grande trasporto.

Spesso ci soffermavamo a guardare le callose abili mani dei pescatori che intrecciavano le corone di spine per la processione del venerdì.

Giovedì sera, comunque, assistevamo all’Ultima Cena.

Eravamo tutti assorti a seguire la funzione, ma, come sempre, aspettavamo la sua conclusione con la benedizione dei pani per averne un pezzo benedetto.

Benedetto quel pezzo di pane: c’era anche tanta fame!

Il venerdì mattina, all’alba, tutti noi della Calavecchia ci ritrovavamo nella Chiesa Matrice per partecipare alla solenne processione.

Ogni quartiere aveva la sua varetta. La nostra era quella col Cristo che cade sotto la croce.

L’ho abbandonata, poi, al tempo del liceo, per quella di San Giovanni.

Si gridava a squarcia gola:

“O spina pungente

pungente e bon Signuri

la festa è passata … …”

intramezzato dai sommessi lamenti per i mal di piedi. Tutti avevamo un paio di scarpe nuove; qualcuno quelle di gomma blu orlate bianche (l’odore del nuovo in questo caso era “forte” ed inconfondibile).

Il venerdì non si scherzava, non si faceva chiasso, non si cantava e, per rispetto al Cristo Morto, non si spazzavano le case né si sputava per terra.

La radio mandava brani di musica classica.

Per noi era una sofferenza, ma l’accettavamo per scaricare poi tutta la nostra esuberanza al momento della gloria.

Sì!… Perché soltanto dopo la gloria ci era consentito di mangiare i dolci di Pasqua (pizzi ccu niepitu e pizzi ccu l’ova), prima bisognava fare digiuno e pregare.

Il rito della gloria era sensazionale e martellante.

Al sabato mattina si svuotava il cucinotto di Elvira “Cannella” (il cucinino era attaccato alla forgia di mastro Severino) e si attaccavano a tutti i chiodi che c’erano in quei muri i coperchi e le casseruole di Elvira (quasi sempre in quei giorni in giro per le contrade di campagna per i suoi affari) e quei grandi barattoli in cui Socievole vendeva la salsa del pomodoro.

Su casseruole, coperchi e barattoli erano botte da orbi con pezzi di canna nodosi o con le assicelle di legno di Bambine con "a parma" di Pasquanoce che ci forniva la bottega di Franciscu ’i mastru Pasquale.

Era davvero la gloria!

Domenica mattina tutti a messa.

All’uscita della messa ci si spandeva per le strade, si comperava il primo gelato (qualcuno lo aveva fatto già a San Giuseppe) e poi via verso i soliti luoghi di ritrovo per giocare (chi aveva soldi) a “volarella” o a “sbatà” (battimuro); altri facevano quasi sempre una partita di pallone.

Uno dei “campi” preferiti era il monumento ai caduti (una volta ho tirato una fallo laterale dal ciglio della vasca dei pesci con relativo tuffo).

Gli odori, verso mezzogiorno, di tutte le cucine e di tutti i ballatoi del quartiere aperti al senso della Pasqua, erano intensi e stimolanti.

Il nostro forno di campagna “fuocu i sutta e fuocu i supra”, cuoceva la solita pasta ripiena rigorosamente con salsiccia, uova sode, formaggio e polpettine di carne.

Le cantine si preparavano per il grande pomeriggio.

Totò Sciandra
(marzo 2002)

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